Chi sembrava l’ultima?

Roberto Beccantini1 maggio 2022

La colpa è mia che vedo troppo calcio inglese. E così peso tutto, tutti, sulla bilancia della Premier. Non dovrei. Non siamo più così ricchi. E comunque, Juventus-Venezia: una decina di minuti da Manchester City (pressing forsennato, traversa di Pellegrini, gol di Bonucci su punizione di Miretti e sponda di De Ligt), e poi, piano piano, il ritorno alle penniche d’antan. Vero, degli ultimi bisogna sempre diffidare, perché saranno i primi, e ultima la Serenissima era, ma vivaddio, si giocava allo Stadium, c’era popolo, faceva caldo e allora vi chiedo: chi sembrava l’ultima? Deduco che non fosse proprio possibile azzeccare un dribbling (Morata), un passaggio (Bernardeschi), un tiro (Vlahovic).

In questi casi si mette tutto sul conto del mister. Allegri, lui, aveva sganciato Fabio Miretti, 18 anni. Centrocampista di suola educata, si è ritrovato in una tonnara che gli avversari, dal trombone di Ampadu al violino di Aramu, hanno conteso fino a governarla. Di solito, è la squadra che adotta il giovane, non il cucciolo che fa da mamma al branco. Coraggio, Miretti.

Il Venezia aveva cambiato skipper: Soncin al posto dell’ex titolare, Zanetti. Crnigoj e c. praticavano un calcio semplice (uhm), ordinato, e la stazza di Henry seminava brividi nell’orto di Szczesny. La partita rotolava verso un epilogo facile da pronosticare: il pareggio, strameritato, del Venezia. Con un gran sinistro di Aramu. Più complicato immaginare che da un corner, battuto da Miretti, ancora Bonucci, in mischia, avrebbe fatto fesso un portiere già abbastanza pollo. Doppietta per i 35 anni: wow.

Entrato con la gioia con cui si va dal dentista, Dyabala passeggiava. Non solo: la staffetta Vlahovic-Chiellini riassumeva lo spirito dell’allegrismo. Non c’è nulla di scandaloso arrivare, per due volte, quarti. Si potesse solo giocare un po’ meglio. Per carità, solo un pochino.

L’altra faccia del calcio

Roberto Beccantini27 aprile 2022

Corre, la memoria, alla papera di Giuliano Sarti a Mantova. Trafisse i resti dell’Inter lisbonese e consegnò lo scudetto alla Juventus del «movimiento» heribertiano. La gaffe di Radu a Bologna non è ancora una sentenza, ma lascia al Milan due punti di vantaggio più il confronto diretto (1-1, 2-1). Insomma, è qualcosa che le assomiglia.

Szczesny, Donnarumma, Meret, persino Buffon, Radu, titolare per caso al posto di Handanovic, acciaccato: una volta, per un portiere, i piedi erano necessari, oggi sono obbligatori. Si discute la costruzione dal basso: il sottoscritto, solo chi la considera un dogma. E poi, nel caso specifico, non ricordo emergenze, non rammento sirene d’allarme.

Stavano dominando, i campioni, al Dall’Ara: anche se non più con la brillantezza che ne aveva scandito l’avvio (gran gol di Perisic, tunnel e sventola mancina dal limite) fino al pareggio di Arnautovic, l’Ibra della Dotta (di testa, su cross di Barrow: imparabile, a scanso di equivoci). Un assedio monotono come molti dei miei pezzi, più tracce di pericolo che occasioni vere e proprie. E tante, tante mischie. Forza d’inerzia, più che forza.

Il Bologna di Sinisa era raccolto attorno a Medel. Aveva ridotto drasticamente le sortite. Ballava. Soffriva. Ma ringhiava. Non mollava. D’improvviso, quella palla innocua a Radu, gli alluci che stridono, e Sansone che, ingordo, lo fa «morire» con tutti i Filistei.
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Belli ciao

Roberto Beccantini26 aprile 2022

Altra categoria. E alta, soprattutto. Altissima. Da Champions. City-Real finisce 4-3 tra applausi bipartisan, com’è giusto che sia dopo un romanzo del genere, emozionante fino all’ultima riga. City più tuoni, Real più lampi. Il risultato è, oggettivamente, bugiardo: un 7-3 avrebbe meglio rispecchiato la trama, e le trame. Ma il calcio non è algoritmo, almeno sull’erba. Per fortuna.

Bravo Pep, bravo Carletto. Invece della luna, lo sciocco fisserà il dito che la indica: fuor di metafora, le fotte difensive. Che ci sono state, per carità – penso alla pollaggine di Alaba su Gabriel Jesus e al mani-comio di Laporte – senza però rigare il coraggio e la qualità del «fatturato» tecnico.

Di tutto, di più. Il centravanti è lo spazio: De Bruyne che detta il lancio a Mahrez (che dribbling, che rasoiate). Il centravanti è il centravanti: Benzema, su cross di Mendy, d’anticipo su Zinchenko. Le riserve che incidono: Fernandinho, «terzino» d’emergenza, che ruba palla a Vinicius e scodella la parabola per il crapino di Foden. La fantasia al potere: Vinicius che, un attimo dopo, pianta Fernandinho con una finta da orgasmo e va via alla Verstappen. Il tuttocampismo di Bernardo Silva: colto in flagranza di pressing e capace di un sinistro memorabile. La freddezza del killer: veniva da due rigori ciccati, Karim the dream, cucchiaio a Ederson e arrivederci al Bernabeu.

Unica traccia di italianismo: il giallo al Pep smoccolante per una rimessa laterale. Al City mancavano Cançelo e Walker, al Real Casemiro. La torta l’ha servita la squadra di casa, tra il legno di Mahrez e non meno di due o tre «barbe» al palo. I blancos di Ancelotti, e un po’ meno di Modric, si sono buttati sulle fette che, nella calca del buffet, riuscivano ad afferrare. Poche, ma buone. Altri avrebbero perso «anche» la testa: loro, solo la partita.

E che partita. Il mio borsino: Real 40% City 60%.